La rivalutazione dei beni d’impresa: influenza sul rating bancario

Photo by Mick Tursky, “building reflection”, from Flickr

Il Decreto Legge 104 del 14 agosto 2020 ha previsto all’art. 110, per le società di capitali che non adottano i principi contabili internazionali nella redazione del bilancio (ma anche per le s.n.c., le s.a.s. e le imprese individuali), la possibilità di rivalutare i beni d’impresa materiali e immateriali e le partecipazioni in società controllate e in società collegate ai sensi dell’art. 2359 c.c. costituenti immobilizzazioni.

La novità che assume valenza dirompente rispetto alle leggi di rivalutazione che si sono susseguite negli ultimi anni non risiede tanto nella ridotta aliquota dell’imposta sostitutiva, necessaria al riconoscimento a fini fiscali della rivalutazione (il 3% anziché il 10-12% previsto dall’ultima legge di bilancio) quanto, piuttosto, nella possibilità di effettuare una rivalutazione anche con effetti esclusivamente civili a prescindere dal riconoscimento fiscale; non accadeva dall’ormai lontano anno 2008. Altra novità di rilievo rispetto al passato è che la rivalutazione non deve più essere necessariamente eseguita per categorie omogenee ma, ai sensi del comma 2 dell’art. 110, può essere effettuata distintamente per ciascun bene;il che significa che l’imprenditore o il manager, in sede di redazione del bilancio, può anche scegliere di rivalutare, nell’ambito della stessa categoria di immobilizzazioni, alcuni beni piuttosto che altri.

La rivalutazione è sottoposta alla condizione per cui i beni che ne costituiscono oggetto devono essere iscritti nel bilancio relativo all’esercizio in corso al 31 dicembre 2019 e andranno rivalutati nel bilancio dell’esercizio successivo (per i soggetti con bilancio coincidente con l’anno solare, quello chiuso al 31 dicembre 2020).

Effettuato dunque il necessario inquadramento normativo, passiamo ad esaminare gli effetti che l’operazione di rivalutazione poc’anzi descritta può avere, se effettuata, sui rating bancari.

Innanzitutto, va premesso che la norma in questione mira al rafforzamento del patrimonio netto aziendale; infatti, stante l’espresso rinvio all’art. 13 della legge 342/2000, il saldo attivo risultante dalle rivalutazioni eseguite deve essere imputato al capitale o accantonato in una speciale riserva riferita alla legge di rivalutazione, con esclusione di ogni diversa utilizzazione. La riserva in questione, ove non venga imputata al capitale, può essere ridotta soltanto con l’osservanza delle disposizioni dei commi 2 e 3 dell’art. 2445 c.c. e, in caso di utilizzazione della stessa a copertura di perdite, non si può fare luogo a distribuzione di utili fin quando la riserva non venga reintegrata o ridotta in misura corrispondente con deliberazione dell’assemblea straordinaria.

Ne consegue, necessariamente, il miglioramento di tutti gli indici patrimoniali che tengono in considerazione l’entità del patrimonio netto, in particolar modo se utilizzati come covenant nei rapporti di finanziamento bancario (v. Il valore della professione nn. 41 e 54).

Consideriamo, ad esempio, il principale indicatore di gearing (che misura l’indebitamento in ragione del patrimonio posseduto), già visto in un precedente intervento, ossia il rapporto tra posizione finanziaria netta e patrimonio netto (o debt equity ratio):

PFN/E

la rivalutazione dei beni aziendali, che comporta l’incremento del patrimonio netto, farà diminuire il suddetto rapporto (sempre che la posizione finanziaria netta non aumenti più dell’equity!), dando luogo alla riduzione dell’indice considerato, con benefici effetti sul rating bancario e sulla possibilità di accedere a nuove risorse di terzi finanziatori. Attenzione però: le banche andranno a investigare, nell’ambito del patrimonio netto (il denominatore E), in che misura esso è composto da:

  • capitale sociale e riserve di capitale, che misurano l’entità degli apporti dei soci, stabilmente destinati al finanziamento aziendale;
  • riserve di utili, che misurano l’attitudine dell’azienda a reinvestire i risultati della gestione per il rafforzamento patrimoniale;
  • altre riserve, quali le riserve di rivalutazione, che derivano da stime soggettive del redattore del bilancio che, pertanto, non sono connotate da certezza; infatti la norma di rivalutazione prevede semplicemente che “i valori iscritti in bilancio e in inventario a seguito della rivalutazione non possono in nessun caso superare i valori effettivamente attribuibili ai beni con riguardo alla loro consistenza, alla loro capacità produttiva, all’effettiva possibilità di economica utilizzazione nell’impresa, nonché ai valori correnti e alle quotazioni rilevate in mercati regolamentati italiani o esteri”. Fissato dunque il suddetto limite tramite, ad esempio, perizia giurata di un esperto, la rivalutazione può essere eseguita anche entro tale limite, con conseguente iscrizione nel patrimonio netto della relativa riserva ad un valore che necessariamente deriva anch’esso da una valutazione soggettiva, seppure quale saldo attivo.

Ebbene, in base al ragionamento che precede, la scelta più opportuna tra le alternative offerte dalla legge sarebbe quella di allocare il saldo attivo alla voce capitale sociale (mediante operazione di aumento) piuttosto che a riserva di rivalutazione, dal momento che il primo è un elemento connotato da certezza, mentre la seconda denota, come detto, elementi di discrezionalità tipici del procedimento di stima; in alternativa, ai soli fini del miglioramento del rating creditizio, l’iscrizione della riserva nel patrimonio netto andrebbe, magari, accompagnata da una effettiva iniezione di liquidità da parte dei soci (per esempio a titolo di riserve in conto capitale), a dimostrazione della reale volontà di patrimonializzare l’azienda a prescindere dalla volontà di cogliere l’opportunità offerta dalla legge; ma a quel punto, ci si domanda, non è più conveniente sopportare i costi per l’iscrizione nel capitale sociale del saldo attivo di rivalutazione?

Andiamo ora vedere il rovescio della medaglia: l’effettuazione di un’operazione di rivalutazione, in base al metodo contabile prescelto per la rappresentazione in bilancio, può dare luogo all’iscrizione nel conto economico di maggiori quote di ammortamento, che possono portare alla riduzione del valore del reddito operativo (EBIT) e, dunque, al peggioramento di indicatori di redditività quali il ROI ed il ROS, tenuti in seria considerazione dalle banche al momento delle scelte di finanziamento. Ricordiamo, in particolare, che nell’equazione di leva finanziaria (che indica la convenienza o la pericolosità del finanziamento tramite indebitamento), il ROI viene messo a confronto con il costo medio del capitale di terzi e la differenza che ne scaturisce deve essere positiva. Cosa accadrebbe, pertanto, se in seguito a un’operazione di rivalutazione, il valore del ROI (e dunque anche lo spread ROI – i) diminuisse rispetto al passato per effetto dei maggiori costi per ammortamento? Nella migliore delle ipotesi, le banche monitorerebbero l’esposizione debitoria del cliente con maggior attenzione, inserendo quest’ultimo tra i soggetti a rischio. Pertanto, almeno in ottica finanziaria (che, com’è noto, diverge dalle politiche fiscali orientate al risparmio di imposta mediante aumento dei costi deducibili), è opportuno privilegiare quei metodi di rappresentazione in bilancio dell’operazione di rivalutazione che consentono di mantenere invariata la quota di ammortamento, al fine di evitare il peggioramento dell’EBIT e, a cascata, dello scoring di bilancio.

In conclusione, l’operazione di rivalutazione costituisce, sul piano della rappresentazione finanziaria di bilancio, un’indubbia opportunità per il miglioramento del rating creditizio, ma è opportuno valutarne minuziosamente e in dettaglio il modo in cui la stessa è rappresentata in bilancio, per evitare che si trasformi in un pericoloso boomerang.

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